IL CORAGGIO DIMENTICATO DI
Peter NORMAN
Melbourne, 15 giugno 1942 – Williamstown, 3 ottobre 2006
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Le fotografie, a volte, ingannano.
Abbiamo parlato in classe della famosissima immagine che racconta lo straordinario gesto di ribellione compiuto dai velocisti americani, Tommie SMITH e John CARLOS, il giorno della premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. Ebbene, questa fotografia, divenuta una delle immagini simbolo di tutto il '900, mi ha ingannato più di volte.
L’ho sempre guardata concentrandomi sui due uomini neri scalzi, con il capo chino e il pugno guantato di nero verso il cielo, mentre suona l’inno americano. Un gesto simbolico fortissimo, per rivendicare la tutela dei diritti delle popolazioni afroamericane in un anno di tragedie come la morte di Martin Luther KING e Bob KENNEDY.
È la foto del gesto storico dei due uomini di colore di cui ho anche letto diversi libri, e forse per questo non ho mai osservato troppo quell'uomo, bianco come me, immobile sul secondo gradino.
La verità invece è che l’uomo bianco nella foto è il terzo, grande eroe, emerso da quella notte del 15 ottobre 1968.
Si chiamava Peter NORMAN, era australiano e arrivò alla finale dei 200 metri dopo aver corso un fantastico 20.22 in semifinale. Solo i due americani Tommie “The Jet” SMITH e John CARLOS avevano fatto meglio: 20.14 il primo e 20.12 il secondo.
Peter NORMAN
Tommie SMITH
John CARLOS
La vittoria si sarebbe decisa tra i due neri, il bianco NORMAN era uno sconosciuto cui giravano bene le cose pensarono forse CARLOS e SMITH vedendo quell'uomo di un metro settantotto correre veloce come loro, che superavano entrambi il metro e novanta.
Ma, in finale, l’outsider Peter NORMAN fece la gara della vita, partendo piano ma producendosi in un favoloso recupero e migliorandosi ancora. Chiuse in 20.06, sua migliore prestazione di sempre e record australiano ancora oggi imbattuto.
Ma quel record non bastò, perché Tommie SMITH era davvero “The jet” e rispose con il Record del Mondo. Abbatté il muro dei venti secondi, primo uomo della storia, chiudendo in 19.83 e prendendosi l’oro.
John CARLOS arrivò terzo di un soffio, dietro la sorpresa NORMAN, unico bianco in mezzo ai fuoriclasse di colore.
Fu una gara bellissima, PAZZASCA.
La finale dei 200m maschili dei Giochi Olimpici di Città del Messico 1968
Eppure la gara non sarà mai ricordata quanto la sua premiazione, perché sul podio di quei 200 metri accadde qualcosa di inaudito.
SMITH e CARLOS portarono davanti al mondo intero la loro battaglia per i diritti umani.
NORMAN era un bianco e veniva dall'Australia, un paese dove c’erano tensioni e proteste di piazza a seguito delle pesanti restrizioni all'immigrazione non bianca e dell’apartheid che, per anni, aveva segregato gli aborigeni. Gli australiani, tra i primi del ‘900 e fino agli anni Sessanta avevano persino imposto adozioni forzate di figli di nativi a vantaggio di famiglie di bianchi per “anglicizzare” gli aborigeni, sradicando dalla famiglie migliaia di bimbi. Una tragedia passata alla storia con il nome di “generazioni rubate”.
Prima della premiazione nacque una conversazione tra i due americani e l'australiano. SMITH e CARLOS chiesero a Peter se credesse nei diritti umani e se credesse in Dio e lui, che aveva un passato nell'Esercito della Salvezza, rispose di sì.
“Sapevamo che andavamo a fare qualcosa ben al di là di qualsiasi competizione sportiva ma lui disse: “sarò con voi” – ricorda John CARLOS – Mi aspettavo di vedere paura negli occhi di NORMAN, invece ci vidi amore”.
I due Atleti americani avevano deciso di salire sul podio portando al petto uno stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, un movimento di atleti solidali con le battaglie di uguaglianza.
inizia la visione dal minuto 15:40
Peter NORMAN lo hanno chiamato in tanti modi. “Il terzo uomo sul podio”, l’uomo bianco in quella foto”, “il volto bianco vicino ai pugni neri”. Ma sicuramente nessuna di queste affermazioni riesce a descrivere quello che questo atleta australiano è stato e soprattutto ha rappresentato veramente.
Una foto che inganna, dicevamo, perché nessuno guardandola si accorge di Peter NORMAN che in segno di solidarietà con la protesta indossa il distintivo dell'Olympic Project for Human Rights, l'associazione degli atleti che combattevano il razzismo.
NORMAN ha appena ottenuto un risultato strabiliante, riuscendo a prendersi un argento, sui cui ben pochi avrebbero scommesso. Potrebbe tornare a casa da vincitore, glorificato dalla stampa e dal governo, come sempre avviene in queste circostanze.
Ed invece disse ai due Atleti statunitensi:
“Io credo in quello in cui credete voi. Avete una di quelle anche per me?“ chiese, indicando la spilla del Progetto per i Diritti Umani sul petto degli altri due. “Così posso mostrare la mia solidarietà alla vostra causa”.
SMITH pensò: “Ma che vuole questo bianco australiano? Ha vinto la sua medaglia d’argento, che se la prenda e basta!”.
Così gli rispose di no, non si sarebbe privato della sua spilla.
Ma, con loro, c’era Paul HOFFMAN, un canottiere americano bianco, attivista del Progetto Olimpico per i Diritti Umani.
Paul aveva ascoltato e pensò che “se un australiano bianco voleva uno di quegli stemmi, per Dio, doveva averlo!”. HOFFMAN non esitò: “Gli diede l’unico che avevo: il suo”.
I tre uscirono sul campo e salirono sul podio. Il resto è passato alla storia, con la potenza di quella foto.
“Non ho visto cosa succedeva dietro di me – raccontò NORMAN – Ma ho capito che stava andando come Tommie e John avevano programmato quando una voce nella folla iniziò a cantare l’inno Americano, ma poi smise. Lo stadio divenne silenzioso”.
È NORMAN stesso a consigliare ai due afroamericani di dividersi il guanto.
Il resto è storia e repressione.
Il presidente del Comitato Olimpico Avery BRUNDAGE andò su tutte le furie per quella protesta politica che non c’entrava nulla con lo sport. La delegazione americana, anche: SMITH e CARLOS furono sospesi dal team statunitense e cacciati dal villaggio olimpico, mentre il canottiere HOFFMAN veniva accusato pure lui di cospirazione.
Tornati a casa i due velocisti ebbero pesantissime ripercussioni e minacce di morte. Furono sospesi dalla squadra americana, ridotti in povertà, costretti a smettere di correre e a fare lavori per pochi soldi, si videro spesso rinnegati dalle loro famiglie che avrebbero preferito tacessero e non si esponessero. Mentre i due non rinnegarono mai le loro scelte ottenendo un riconoscimento pressoché universale per il proprio coraggio entrando nei libri di storia e nell'immaginario collettivo della lotta per i diritti umani. Per loro è stata eretta una statua all'Università di San José
In questa statua non c’è Peter NORMAN.
Quel posto vuoto sembra l’epitaffio di un eroe di cui nessuno si è mai accorto. Un atleta dimenticato, anzi, cancellato, prima di tutto dal suo paese, l’Australia.
Una volta tornato in patria, infatti, viene emarginato dalle autorità sportive. Malgrado una persecuzione almeno pari a quella dei due afroamericani, NORMAN non ebbe mai la luce dei riflettori. Eppure lui di coraggio ne aveva avuto anche più di SMITH e CARLOS. Perché ci vuole più coraggio a lottare per i diritti degli altri che per i propri.
La sua presa di posizione in Messico gli costò la carriera ma in tutta la sua vita NORMAN non rinnegò mai quella decisione.
Nonostante gli ottimi tempi (ben 13 volte sotto il tempo di qualificazione olimpica dei 200m e 5 sotto quello dei 100), gli impediscono di partecipare alle Olimpiadi di Monaco del 1972, e per questa delusione lasciò l'atletica agonistica, continuando a correre solo a livello amatoriale.
In patria, nell'Australia bianca che voleva resistere al cambiamento, fu trattato come un reietto, la famiglia screditata, il lavoro quasi impossibile da trovare. Dopo una breve carriera nel Football fece l'Insegnante di Educazione Fisica ma – non avendo ultimato gli studi – non trovò un posto fisso. Lavorò saltuariamente in una macelleria, recitò in piccoli spettacoli teatrali, cercò di cavarsela come poteva.
Un infortunio in una staffetta corsa con alcuni amici gli causò una grave cancrena con il rischio di perdere una gamba. Peter divenne dipendente dagli antidolorifici, avvitandosi in una spirale di depressione e alcolismo.
Come disse John CARLOS: “Se a noi due ci presero a calci nel culo a turno, Peter affrontò un paese intero e soffrì da solo”. Per diversi anni NORMAN ebbe una sola possibilità di salvarsi: condannare il gesto dei suoi colleghi Tommie SMITH e John CARLOS. Stare dentro il sistema, insomma. Ma lui non mollò e non condannò mai la scelta dei due americani. Era il più grande sprinter australiano mai vissuto e detentore del record sui 200 metri, eppure alle Olimpiadi australiane di Sidney 2000 fu coinvolto solo in modo molto marginale: presenziò ad alcuni piccoli eventi preparatori e portò per una frazione la fiaccola dei Giochi, quasi zoppicando. Ma non fu invitato a collaborare con il team australiano e nemmeno gli venne offerto un biglietto per assistere alle gare, costretto a cercare di comprarselo. Il Comitato Olimpico americano, una volta scoperta la notizia, s’indignò. Possibile che una leggenda come NORMAN fosse trattata in quel modo? Gli americani chiesero a Peter di aggregarsi al loro gruppo e lo invitarono alla festa di compleanno del campione Michael JOHNSON per cui Peter NORMAN era un modello e un eroe.
“Peter è stato un soldato solitario. Ha scelto consapevolmente di fare da agnello sacrificale nel nome dei diritti umani. Non c’è nessuno più di lui che l’Australia dovrebbe onorare, riconoscere e apprezzare” disse John CARLOS.
“Ha pagato il prezzo della sua scelta – spiegò Tommie SMITH – Non è stato semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata una SUA battaglia. È stato un uomo bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel nome della stessa cosa”.
Con queste parole:
“Questo Parlamento riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter NORMAN che vinse la medaglia d’argento nei 200 metri a Città del Messico, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano. Riconosce il coraggio di Peter NORMAN nell'indossare il simbolo del Progetto Olimpico per i Diritti umani sul podio, in solidarietà con Tommie SMITH e John CARLOS, che fecero il saluto del “potere nero”...
solo nel 2012 il Parlamento Australiano ha approvato una tardiva dichiarazione di scuse nei confronti di Peter NORMAN riabilitandolo alla storia e riconoscendo il potentissimo ruolo da lui giocato nella lotta per l'uguaglianza razziale.
Ma, forse, le parole che ricordano meglio di tutti NORMAN sono quelle semplici eppure definitive con cui lui stesso spiegò le ragioni del suo gesto, in occasione del film documentario “SALUTE”, girato dal nipote Matt.
“Non vedevo il perché un uomo nero non potesse bere la stessa acqua da una fontana, prendere lo stesso pullman o andare alla stessa scuola di un uomo bianco. Era un’ingiustizia sociale per la qualche nulla potevo fare da dove ero, ma certamente io la detestavo.
È stato detto che condividere il mio argento con tutto quello che accadde quella notte alla premiazione abbia oscurato la mia performance. Invece è il contrario.
Lo devo confessare: io sono stato piuttosto fiero di farne parte”.
Morirà il 3 ottobre 2006, SMITH e CARLOS porteranno la sua bara. Morì proprio negli anni in cui in Australia la consapevolezza civile era giunta al punto da istituire il National Sorry Day, la giornata del dispiacere e delle scuse per le discriminazioni nei confronti degli aborigeni.
La Storia di Peter NORMAN, ragazzi, è una Storia che vale la pena di raccontare e soprattutto ricordare.