LA FINE DEI
GIOCHI OLIMPICI
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IL DECLINO
I Giochi Olimpici scomparvero nel 393 d.C., dopo 293 edizioni e dopo 1169 anni dalla loro istituzione. La loro fine fu decretata da Teodosio I, imperatore romano d'Oriente e d'Occidente, su invito di Ambrogio, vescovo di Milano.
Diversi avvenimenti che caratterizzarono la storia ellenica per un millennio contribuirono a snaturare progressivamente lo spirito e i valori dell'agonistica nell'ambito del più generale e definitivo tramonto delle tradizioni classiche greche.
I primi segni premonitori di questo processo sono avvertibili già nel 6° sec. a.C., due secoli dopo la prima edizione dei Giochi. Ma ancora prima di questa data si erano levate voci, se non di critica, quanto meno di parziale dissenso nei confronti del ruolo attribuito all'agonismo nel contesto civile e sociale della pòlis. Ciò accadeva già nel 7° secolo a Sparta, dove il culto della prestanza fisica era molto forte ma dove ancora più sentita era la necessità di indirizzare le qualità fisiche dei cittadini a beneficio della comunità e non all'esaltazione o al vantaggio individuali. Sin dall'inizio dei Giochi, dunque, non mancarono le critiche, anche se non erano rivolte contro lo spirito di competizione né erano legate a sintomi di malessere dell'agonistica. L'atletismo non era avversato in quanto tale, ma per la sua collocazione esagerata nella scala dei valori sociali. Intellettuali e scuole filosofiche non potevano accettare il fatto che i grandi campioni fossero onorati come semidei successori di Ercole e vantassero titoli come mònos kaì pròtos ("unico e primo") o come pròtos anthròpon ("primo tra gli uomini"). La vittoria negli antichi giochi arrecava al trionfatore non solo grande fama, ma, con il trascorrere del tempo, anche vantaggi materiali e privilegi. Ad Atene gli olimpionici, oltre a ricevere premi in denaro, erano esentati dalle tasse ed erano mantenuti a spese della pòlis. A Sparta avevano il diritto di sedere accanto al re nelle cerimonie pubbliche, in loro onore si erigevano statue e si procuravano loro sistemazioni profittevoli, carriere e cariche pubbliche. A Messene ai vincitori dei giochi veniva assicurato lo stesso trattamento riservato ai cittadini che avevano acquisito particolari benemerenze. Tra i riconoscimenti più tangibili vi era la dichiarazione di aneisphòroi ("esentati dalle tasse"). Il passo dai successi nello stadio a quelli nell'agorà era divenuto troppo agevole e pertanto era naturale che destasse invidia e animosità.
Con il tempo le censure non si limitarono ad avere come obiettivo l'esasperata esaltazione dei campioni, ma furono indirizzate indiscriminatamente contro gli atleti e la stessa attività agonistica. Il contrasto conobbe posizioni sempre più radicali, fino a raggiungere accenti di vera e propria aperta invettiva. Questo atteggiamento è riscontrabile in moltissime opere letterarie del 5° sec. a.C. Per es. in un frammento della commedia andata perduta Autolycosdi Euripide compare un giudizio molto severo: "Di tutti gli innumerevoli mali che affliggono la Grecia, nessuno certo è peggiore della razza degli atleti. [...] Essi non sono capaci di sopportare la miseria, né di comportarsi bene quando la sorte è loro favorevole e, non avendo esercitato il carattere alla costanza, cadono nell'avvilimento in caso di cambiamento di fortuna. Da giovani si aggirano in vesti pregiate e si credono l'ornamento della città, ma quando sopraggiunge la vecchiaia in tutta la sua asprezza sono messi da parte come mantelli laceri". Con Socrate il distacco tra ideale agonistico e qualità intellettuali prende contorni ancor più distinti ed evidenti: il filosofo, che pure si occupa della educazione dei giovani dal punto di vista sia intellettuale sia fisico, accusa l'atletismo di curare troppo la specializzazione, arrecando danni irreversibili allo sviluppo armonico del corpo. Alla stessa epoca risalgono le critiche contro l'agonismo dei sofisti che ritenendo fondamentali i valori intellettuali quali la dialettica e la retorica, intese come arti della persuasione indispensabili per affermare la supremazia politica, giudicano le attività del corpo, ivi comprese quelle collegate all'agonistica, subordinate all'educazione intellettuale. Sentimenti ostili e spregiativi sono espressi anche in Platone che pure considera gli esercizi fisici una componente fondamentale per l'educazione dei giovani e la ginnastica una "scienza non inferiore alla filosofia". Nel Timeo, infatti, elogia la cultura fisica come elemento indispensabile per lo sviluppo armonioso della personalità umana, ma, allo stesso tempo, si scaglia contro l'agonismo esasperato che deve essere bandito poiché porta gli atleti "al culto della brutalità, indebolendone sia il fisico sia l'intelletto". Nella polemica si inserisce anche Aristotele, il quale a proposito dei danni prodotti dalla precoce specializzazione atletica annota che un giovane, se vince a Olimpia gareggiando nella categoria ragazzi, raramente ripete i successi da adulto. Viene spontaneo, al riguardo, rilevare che ancora oggi dopo 25 secoli si discute sui danni del precoce avvio all'agonismo di molti adolescenti, che ottengono in giovane età risultati che da adulti non riescono a confermare.
Allorché il decadimento degli ideali dell'olimpismo si fece più visibile, le accuse ebbero come obiettivo la venalità degli atleti e la loro sete di denaro. Con il passare del tempo, i campioni avevano preteso riconoscimenti sempre più tangibili, non bastando le simboliche corone di ulivo e di alloro a soddisfarne la vanità. Di conseguenza il valore intrinseco dei premi divenne sempre più significativo. D'altra parte non c'era da sorprendersi per quelle pretese, dal momento che perfino leggi di Stato stanziavano somme cospicue a favore degli atleti che si affermavano nei giochi panellenici. Abbiamo già ricordato come il legislatore ateniese Solone, grande e convinto sostenitore del valore formativo dell'atletica e della sua importanza dal punto di vista politico e sociale, stabilisse un premio in denaro di 500 dracme per i vincitori delle Olimpiche e di 100 dracme per le Istmiche (alla fine del 5°sec. a.C. la paga di un oplita o di un artigiano ateniese era di una dracma al giorno). Nel 1° sec. a.C. Cicerone ebbe a dire che un generale romano riceveva, per i suoi trionfi, onori e ricompense minori rispetto a quelle di un vincitore di Olimpia.
Eccessi e sete di denaro furono le premesse dei primi casi di corruzione, tentati o consumati. L'oratore ateniese Lisia, in occasione della XCVIII Olimpiade (388 a.C.), pronunciò la famosa orazione Olympiakòs contro la degenerazione dell'agonismo e in difesa della purezza degli ideali olimpici. Ma il malcostume dilagante non colpì solo i concorrenti, fece vittime anche tra gli ellanodici: durante la XCVI Olimpiade (396 a.C.) Leon d'Ambracia, battuto da Eupolemos di Elide nella corsa veloce, accusò il vincitore di averlo volontariamente danneggiato; uno dei tre giudici accolse il reclamo, gli altri due lo respinsero; Leon non accettò il verdetto e accusò di corruzione gli ellanodici che gli avevano dato torto; il Gran Consiglio diede ragione all'atleta e punì con l'espulsione i giudici colpevoli. Secondo la tradizione delle regole olimpiche, il verdetto della gara non fu revocato e il nome di Eupolemos continuò a comparire in tutte le liste degli olimpionici. Ciò fa pensare che per la 'giustizia sportiva' dell'epoca il risultato finale della competizione avesse un carattere quasi sacrale e pertanto fosse, in ogni caso, definitivo e irrevocabile, una volta accertato sul campo di gara. Un altro scandalo riguardante un giudice fu denunciato in occasione della CII Olimpiade (372 a.C.), quando un ellanodico di nome Troilos, nonostante la sua qualifica, iscrisse propri cavalli alle prove ippiche, aggiudicandosi due allori. Scrive Pausania che il risultato finale della gara fu evidentemente condizionato dal fatto che Troilos appartenesse al corpo dei giudici. Il suo comportamento fu severamente censurato dal Gran Consiglio ed egli fu scacciato da Olimpia per indegnità, ma la vittoria restò confermata. In conseguenza del deplorevole episodio, da quel momento fu impedito agli ellanodici, con apposite norme, di prendere parte alle competizioni.
LA CONQUISTA ROMANA
La conquista romana, che produsse il disgregamento definitivo delle pòleis, ebbe anche notevoli e decisive ripercussioni sul destino olimpico. Sebbene per quanto riguarda i giochi i romani non imposero la legge del vincitore ma accettarono le regole, rispettarono i riti, onorarono gli dei della città sacra, con il passare del tempo la loro decisiva influenza sul definitivo decadimento dei costumi della società ellenica incise anche sui valori dell'atletismo.
Un rischio grave fu corso dalle Olimpiadi quando Silla nell'80 a.C. decise di farle disputare a Roma: tutti gli atleti furono invitati nell'Urbe, cosicché a Olimpia si svolse una sola gara riservata ai ragazzi. Forse Silla mirava a un trasferimento in via definitiva, ma morì e il suo proposito non fu mai messo in atto.
A prescindere da questo singolo episodio, ciò che più influenzò negativamente il destino dei giochi fu la loro trasformazione in manifestazioni che non avevano più nulla in comune con le originarie feste di Olimpia. I romani non amavano l'agonismo greco, l'agòn era estraneo alla loro cultura, né deve trarre in inganno il fatto che Roma ospitasse gare vere e proprie, denominate ludi maximi. Infatti, i protagonisti di queste competizioni erano schiavi o comunque reclutati dai ceti più modesti, nelle campagne e soprattutto nelle colonie; gareggiavano per divertire spettatori che, abbrutiti dalle guerre, preferivano spettacoli eccitanti, quali le competizioni tra professionisti, se non addirittura le lotte tra gladiatori. Su questa falsariga anche in Grecia si affermò un nuovo tipo di atleti per i quali non contava certo che fosse decantata la loro origine divina, ma di cui le caratteristiche erano piuttosto la sete di denaro, la corruttibilità, la tracotanza. Nacque cioè la professione di atleta, in cui l'abilità agonistica diventò fonte di guadagno. Prendere parte alle gare non era più una scelta, era un modo per trovare un'occupazione. Prosperò una particolare categoria di competitori, i cosiddetti periodonìcai, ossia coloro che avevano ottenuto l'alloro nei quattro Giochi panellenici, Olimpici, Pitici, Istmici e Nemei. Gli organizzatori facevano a gara nel contenderseli, offrendo loro ingenti somme di denaro per ingaggiarli. Fu creata un'apposita curia per proteggere gli interessi della categoria (una specie di sindacato ante litteram) e si costituirono varie corporazioni di atleti professionisti.
Nel momento in cui le doti naturali e gli allenamenti non specializzati non furono più sufficienti ad assicurare il successo, acquistò grande importanza il ruolo degli allenatori a tempo pieno. Con il loro apporto l'addestramento divenne scientifico, programmato, finalizzato ed essi furono ben retribuiti, a volte anche a spese dell'erario. Notevole influenza ebbero dal 2° sec. d.C. gli scritti di Galeno, dopo Ippocrate il medico più insigne dell'antichità, a cui va attribuito il merito di avere messo l'accento sull'importanza della ginnastica non solo per il benessere fisico ma anche per la formazione del carattere dei giovani. Sostituendo agli esercizi elementari dei secoli precedenti, così aderenti al modo di vivere e alle abitudini semplici del popolo greco, un sistema scientifico di preparazione fisica, Galeno indicò minuziosamente gli esercizi da suggerire ai giovani fra i 14 e i 21 anni, distinguendo tra quelli destinati a rafforzare gli arti superiori e quelli utili per il tronco e gli arti inferiori, e classificandoli in tre differenti categorie. Alla prima appartenevano gli esercizi atti a tonificare i muscoli, senza effettuare movimenti violenti o a strappo; fra gli esempi consigliati figuravano lo zappare, il salire su una fune o il trasportare pesi. Una seconda categoria era rappresentata dagli esercizi 'rapidi' che favorivano l'agilità, come una serie di movimenti delle braccia e delle gambe, il gioco della palla, la corsa, il camminare in punta di piedi, muovendo in maniera coordinata le braccia, il saltellare in avanti e indietro. Infine una terza serie di esercizi, definiti 'violenti', consisteva nella ripetizione, in rapida successione e senza pause, dei movimenti indicati nella seconda categoria. Galeno diede anche indicazioni sui massaggi da effettuare prima e dopo gli allenamenti e sulla durata degli esercizi, e raccomandò di avvalersi di istruttori specializzati, i gymnàstes, i quali avevano il dovere di prepararsi scientificamente. La dottrina galenica ebbe una grandissima influenza anche nei secoli seguenti, tanto da venir adottata integralmente nel Rinascimento. Si deve notare, però, che nel proporre la sua ginnastica come l'unica forma di attività fisica capace di produrre innegabili benefici, Galeno biasimava gli eccessi dell'agonismo specializzato che, praticato senza il controllo medico, procurava danni irreversibili alla salute. Secondo Galeno, inoltre, l'attività degli atleti, diventata sempre più artificiosa, oltre che nuocere alla salute, li rendeva inadatti alla vita di tutti i giorni.
Le posizioni critiche verso l'agonismo compresero altresì disquisizioni sul regime alimentare. Alle origini dell'agonistica la dieta degli atleti era per lo più vegetariana, così come lo era quella della gente comune che si nutriva dei prodotti dei campi, ma già nel 2° sec. a.C., le abitudini alimentari si erano modificate, prevedendo pasti più sostanziosi e variati. Questa modifica alle vecchie abitudini alimentari fu consigliata dallo specialista Pitagora, omonimo del filosofo di Samo, che suggeriva di aggiungere all'abituale dieta di formaggio e fichi, cibo prediletto dagli atleti, abbondanti porzioni di carne. Con il passare del tempo, divenne sempre più diffusa un'alimentazione basata su abbondanti libagioni per aumentare la mole corporea, in particolare nelle discipline da combattimento. Le prove sulle disarmonie fisiche che simili regimi procuravano agli atleti professionisti risultano evidenti dalle testimonianze archeologiche. Significativa è la statua conservata al Museo di Napoli conosciuta come l'Ercole Farnese, copia da un originale di Lisippo, che raffigura un atleta dalle forme sproporzionate e massicce, estranee all'ideale classico del 5° secolo. Un'altra immagine emblematica è quella del Pugilatore in riposo, esposta al Museo delle Terme di Roma.
Gli atleti non furono l'unico obiettivo dei critici dell'agonismo. Non mancarono accuse nei confronti del pubblico, colpevole di esaltarsi con dissennata e incontrollata passione per le imprese dei campioni. A questo riguardo appare significativo il commento di Dione Crisostomo che, nella sua orazione Agli alessandrini, dedica molta più attenzione al comportamento degli spettatori che agli atleti, con argomenti e riflessioni che mantengono ancora oggi una straordinaria e stupefacente attualità. Analogamente il dialogo Anacarsidello storico Luciano di Samosata (2° sec. d.C.), che presenta un vivace ritratto del mondo agonistico greco, si sofferma sulle perplessità che il principe degli Sciti espresse a Solone sulla esagerata attenzione rivolta dai greci verso i loro giochi e in particolare sulla loro passione sfrenata per le corse dei carri.
Le unanimi condanne di Luciano, di Filostrato e di Galeno sono sintomatiche dell'atteggiamento degli intellettuali dell'epoca che, stigmatizzando il predominio dello spettacolo sull'originaria atmosfera quasi sacra dei giochi, invocavano un ritorno all'antico. Ma il professionismo, la corruzione, gli eventi militari e politici, uniti all'affievolimento o alla scomparsa delle credenze pagane, avevano ormai eroso l'essenza stessa dei Giochi Olimpici snaturandola prima, spegnendola poi.
L'AVVENTO DEL CRISTIANESIMO
Secondo un giudizio diffuso, l'evento che più di altri ebbe una influenza determinante sulla fine dei Giochi dell'antica Grecia fu l'avvento della religione cristiana e il suo rapido diffondersi in tutto l'Impero Romano. Nel 4° secolo il cristianesimo, sopravvissuto a un lunghissimo periodo di persecuzioni a cui pose fine nel 313 l'Editto di Milano promulgato da Costantino il Grande, trionfò e si avviò a diventare religione di Stato. In un clima di fervore religioso, moralisti e scrittori cristiani, che palesavano la loro avversione per tutte le celebrazioni ispirate o in qualche modo collegate alle feste e ai riti pagani, manifestarono lo stesso atteggiamento di ripulsa anche nei confronti dell'agonismo. Sono numerosi gli scritti dei Padri della Chiesa che esortano i cristiani a resistere alle infatuazioni dei ludi agonali. In particolare in sant'Agostino la deprecazione degli spettacoli atletici assume accenti sferzanti.
In realtà non tutte le voci del mondo cristiano furono di condanna inappellabile verso l'agonismo. Altri Padri della Chiesa anzi cercarono di rendere più comprensibile il loro insegnamento facendo ricorso a metafore tratte dall'ambito dell'atletica. Eusebio, vescovo di Cesarea, autore della Storia ecclesiastica e che compilò tra l'altro una lista dei vincitori olimpici sino alla CCL Olimpiade, riprendendo un'immagine di san Paolo definiva atleti "i buoni cristiani timorosi di Dio". Metodio, vescovo in Licia, sosteneva l'utilità dell'esercizio fisico per la formazione e l'educazione della gioventù. Vi è, dunque, più di una testimonianza che consente di respingere la tesi radicale di coloro che indicano esclusivamente nel cristianesimo la causa della soppressione dei Giochi, quale conseguenza dell'avversione contro l'agonismo e l'esercizio fisico, in nome della cultura dello spirito. In realtà non ci fu una esplicita condanna dell'atletismo fine a sé stesso, ma una dura censura del modo in cui era organizzato e praticato e delle sue forme, ritenute prive di contenuti ideali.
L'EDITTO DI COSTANTINOPOLI
La data ufficiale di cessazione dei Giochi Olimpici è fissata concordemente nel 393 d.C., in coincidenza con la CCXCIII Olimpiade. La sentenza di condanna fu decretata dall'imperatore Teodosio I con l'Editto di Costantinopoli, ma non si trattò di una pronuncia diretta e specifica per i Giochi di Olimpia, la cui scomparsa fu, in realtà, un avvenimento marginale e complementare rispetto al decreto imperiale.
Il precedente dell'Editto di Costantinopoli furono i violenti tumulti scoppiati nel 390 d.C. durante alcune gare circensi a Tessalonica (l'odierna Salonicco). Per ordine di Teodosio la ribellione fu repressa nel sangue e migliaia di civili furono trucidati. Ambrogio, all'epoca potente vescovo di Milano e che esercitava una fortissima influenza sull'imperatore, condannò apertamente la decisione di Teodosio, indicandolo come colpevole di un grave misfatto, che solo un atto pubblico di espiazione avrebbe potuto mitigare. Teodosio nell'imminenza del Natale dell'anno 390 fece atto di sottomissione alla Chiesa e da quel momento si eresse a paladino della religione cristiana, dando inizio a una persecuzione implacabile contro ariani e pagani. Il decreto che imponeva l'ordine di chiusura dei templi e il divieto di osservare culti e riti pagani fu inviato dapprima al prefetto urbano Albino, poi a quello dell'Egitto e infine diramato da Costantinopoli in tutto l'Impero, l'8 novembre 392. In conseguenza di questo provvedimento venivano vietati i giochi atletici che alimentavano ancora pericolose sopravvivenze di quella paganità che il cristianesimo combatteva. Fu così che Olimpia venne indirettamente raggiunta dal proclama dell'Imperatore. L'anno seguente la CCXCIII edizione dei Giochi non fu celebrata.
Per il periodo precedente al decreto di Teodosio non si hanno notizie sui vincitori dei Giochi Olimpici. L'araldo di Sinope Valerius Eclectus, vincitore di quattro agoni dal 245 al 261, sembra quasi assumersi il compito di proclamare, con i suoi ultimi virtuosismi, la fine delle feste olimpiche. Man mano che ci si approssima alla stagione finale dei Giochi le notizie sulle gare disputate e sui nomi dei vincitori si fanno sempre più labili e confuse. Non ci sono tracce dei Giochi che, a regola di calendario, avrebbero dovuto effettuarsi nel 265 e nel 273. Si arriva così all'anno 277 (CCLXIV Olimpiade) e tale Aurelius Sarapammon, egiziano di Ossirinco, compare tra i vincitori, ma non si individua in quale gara. Da allora Olimpia, per circa un secolo, sembra diventare un deserto, terra di nessuno. Le liste aggiornate degli olimpionici non sono in grado di registrare un solo nome di atleta sino al 369 d.C. (CCLXXXVII Olimpiade). In questa edizione, l'armeno Varazdate, unico barbaro che abbia vinto un titolo olimpico, coglie la vittoria nel pugilato. Dalla CCLXXXVIII sino alla CCXCIII (393 d.C.) l'Olimpiade sprofonda nuovamente nel buio e non si ha traccia né dei nomi dei vincitori né delle gare disputate. L'eclisse dei Giochi era ormai questione di giorni.
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
http://www.treccani.it/enciclopedia/olimpiadi-antiche_%28Enciclopedia-dello-Sport%29/